REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI MILANO
SEZIONE LAVORO
in composizione monocratica e in funzione di Giudice del Lavoro, in persona della dott.ssa Chiara COLOSIMO, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
ex art. 53, legge 133/2008
nella controversia di primo grado promossa
da
YYYYYYYYY s.p.a.
con l’Avv. HHHHHHHHH, elettivamente domiciliata presso lo Studio ZZZZZZZZ in Milano-OPPONENTE-
contro
XXXXXXXXXXXX
con l’Avv. ANTONIO Lo Giudice e l’Avv. MICHELA Lo Giudice, elettivamente domiciliato presso lo Studio dei difensori in Milano, via Cipro n. 7
-OPPOSTA-
Oggetto: opposizione a decreto ingiuntivo
FATTO
con ricorso depositato il 10 settembre 2019, YYYYYYYYY s.p.a. ha convenuto in
giudizio XXXXXXXXXXXXX, interponendo opposizione avverso il decreto
ingiuntivo n. 1969/2019, Ruolo n. 6773 ingiunzioni 2019 emesso dal Tribunale di
Milano, Sezione Lavoro, il 18 luglio 2019, con il quale le si intimava il pagamento di € 37.972,99 lordi oltre spese di procedura, in favore dell’opposta.
L’opponente ha chiesto la revoca del decreto ingiuntivo, previo accertamento
dell’infondatezza in fatto e in diritto dell’avversa pretesa.
Con vittoria delle spese di lite.
Si è costituita ritualmente in giudizio XXXXXXXXXXXXX, eccependo l’infondatezza in fatto e in diritto dell’opposizione e chiedendone il rigetto, con conferma del decreto opposto.
Con vittoria delle spese di lite, con distrazione a favore dei procuratori antistatari.
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XXXXXXXXXXXXX è stata dipendente di YYYYYYYYY s.p.a. sino al 31 dicembre 2012 quando è passata alle dipendenze di WWWWWWWW s.p.a. in forza di un trasferimento di ramo di azienda siglato dalle due società.
Il trasferimento di ramo di azienda è stato oggetto di impugnazione da parte di
una molteplicità di lavoratori coinvolti, tra i quali l’odierna opposta, ed è stato giudicato illegittimo con sentenza della Corte di Appello di Milano del 26 febbraio 2018, n. 2122, che ha accertato l’inefficacia della cessione, dichiarando la prosecuzione del rapporto di lavoro – tra gli altri – di XXXXXXXXXXXXX e YYYYYYYYY s.p.a. (doc. 3, fascicolo opponente).
E’ pacifico in causa che XXXXXXXXXXXXX abbia offerto la propria
prestazione lavorativa a YYYYYYYYY s.p.a. – senza esito alcuno – già con lettera
raccomandata del 21 dicembre 2017 (ossia, immediatamente dopo la lettura del
dispositivo del 28 novembre 2017 – cfr. doc. 2, fascicolo monitorio). Parimenti
pacifico e documentale che l’opposta sia – nelle more – addivenuta alla risoluzione
del rapporto di lavoro con WWWWWWWW s.p.a. e abbia, pertanto, nuovamente messo
in mora l’odierna opponente con lettera dell’11 marzo 2019 (doc. 4, fascicolo
opponente).
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La presente vicenda muove dalla pretesa, azionata in via monitoria da XXXXXXXXXXXXX, di vedersi riconosciuto l’importo corrispondente alle retribuzioni cui avrebbe avuto diritto a far data dall’originaria messa in mora.
Si oppone la società sostenendo che le pretese creditorie della lavoratrice
sarebbero inammissibili, non avendo XXXXXXXXXXXXX svolto alcuna prestazione lavorativa in favore di YYYYYYYYY s.p.a., avendo la stessa già percepito le retribuzioni corrispostele da WWWWWWWW s.p.a. (che, secondo la tesi dell’opponente, andrebbero detratte come aliunde perceptum), essendo poi intervenuta la risoluzione consensuale del rapporto con WWWWWWWW s.p.a. Ancora, inammissibile sarebbe l’inserimento – tra le somme portate dal decreto ingiuntivo – del beneficio fiscale di cui all’art. 1 D.L. 66/2014, anche in quanto evidentemente duplicato rispetto a quanto corrisposto dalla cessionaria.
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L’opposizione è infondata e, pertanto, deve essere rigettata.
Avuto particolare riguardo al rapporto tra le vicende inerenti all’impugnazione del trasferimento di azienda e l’originario rapporto con il cedente, e quelle relative al rapporto ceduto e alle determinazioni del cessionario, è recentemente intervenuta una pronunzia del Supremo Collegio alla quale si ritiene di aderire condividendone le motivazioni.
Segnatamente, la Corte di Cassazione ha affermato che, "con particolare riguardo al trasferimento d’azienda, il lavoratore ha interesse ad accertare in giudizio l’inconfigurabilità di un ramo d’azienda in un complesso di beni oggetto del trasferimento e quindi, in difetto del suo consenso, l’inefficacia nei suoi confronti del trasferimento stesso: non essendo per lui indifferente, quale creditore della prestazione retributiva, il mutamento della persona del debitore-datore di lavoro, che può offrire garanzie più o meno ampie di tutela dei suoi diritti. Né tale interesse viene meno per lo svolgimento, in via di mero fatto, di prestazioni lavorative per il cessionario (non integrante accettazione della cessione del contratto di lavoro), né per effetto dell’eventuale conciliazione intercorsa tra lavoratore e cessionario all’esito del licenziamento del primo e neppure, in genere, in conseguenza delle vicende
risolutive del rapporto con il cessionario" (Cass. Civ., 24 ottobre 2017, n. 25144 – parte motiva; conforme, Cass. Civ., Sez. Lav., 16 giugno 2014, n. 13617).
Tanto basta, a parere del giudicante, per escludere che la risoluzione del rapporto tra XXXXXXXXXXXXX e WWWWWWWW s.p.a. possa esplicare qualsivoglia effetto in ordine ai rapporti tra la prima e YYYYYYYYY s.p.a., per come giudizialmente accertati e regolamentati.
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Nel merito, deve preliminarmente rammentarsi come la Suprema Corte sia
costante nell’affermare che dal momento dell’offerta della prestazione lavorativa si determina “una situazione di “mora accipiendi’“ del datore di lavoro, da cui deriva, ai sensi degli artt. 1206 e ss. cod. civ., il diritto del lavoratore al risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni perdute a causa dell’ingiustificato rifiuto della prestazione’“ (Cass. Civ., Sez. Lav., 2 luglio 2009, n. 15515; cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., 10 novembre 2009, n. 23756; Cass. Civ., Sez. Lav., 27 marzo 2008, n. 7979).
Recentemente, avuto particolare riguardo al contenzioso che qui ci occupa, il
Supremo Collegio ha affermato che, “in caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art.2112 c.c., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la
prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa’“
(Cass. Civ., Sez. Lav., 21 ottobre 2019, n. 26759). La pronunzia si pone nel solco della decisione con cui la Corte Costituzionale ha affermato che, “in caso di cessione del ramo d’azienda dichiarata illegittima, sul datore di lavoro che persista nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa, ritualmente offerta dopo l’accertamento giudiziale che ha ripristinato il
vinculum iuris, continua a gravare l’obbligo di corrispondere la retribuzione’“ (Corte Costituzionale, 28 febbraio 2019, n. 29).
In sede di discussione, parte opponente ha approfonditamente discusso sulla
ritenuta erroneità dei suddetti orientamenti con argomentazioni che, tuttavia, non posso essere condivise in questa sede.
L’impostazione difensiva della società – volta, da un lato, a negare in nuce il diritto alla retribuzione per assenza di prestazione e, dall’altro, il diritto al risarcimento per la presenza di un aliunde perceptum – condurrebbe al sostanziale risultato di privare di qualsiasi forma di tutela il lavoratore che sia esposto, tanto al perdurante inadempimento contrattuale del datore di lavoro, quanto alla reiterata inottemperanza di quest’ultimo all’ordine giudiziale. Una condizione cui non potrebbe che corrispondere l’assenza di qualsivoglia giuridica conseguenza in capo a quel soggetto che, sottraendosi a specifici obblighi contrattuali, ritenga altresì di potersi unilateralmente esonerare dall’ottemperare alle statuizioni giurisdizionali.
Condizione, quella appena evidenziata, del tutto inconciliabile con il nostro
ordinamento giuridico e il principio di certezza del diritto sul quale lo stesso si fonda.
Ciò posto, richiamata integralmente – quanto al merito – la decisione del Giudice di Legittimità e la funzione nomofilattica che allo stesso compete, e considerata la tempestiva messa in mora, deve concludersi per la fondatezza della pretesa creditoria azionata da XXXXXXXXXXXXX con il decreto ingiuntivo per cui è causa.
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Da ultimo, per quel che attiene al credito fiscale di cui all’art. 1 D.L. 66/2014, si rammenta che il credito di imposta sulla retribuzione mensile è un diritto del lavoratore correlato a specifici requisiti di reddito, la cui verifica non può che avvenire ex post in sede di dichiarazione dei redditi e il cui eventuale esito negativo fa sorgere in capo al lavoratore l’obbligo di provvedere – con le correlate compensazioni tra crediti e debiti fiscali – alla restituzione integrale o parziale di quanto a tal titolo percepito.
La questione, pertanto, resta estranea alla legittimazione di parte opponente.
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In ragione di quanto sin osservato, assorbente rispetto a ogni altra questione
prospettata dalle parti, deve concludersi per l’integrale rigetto dell’opposizione.
La regolazione delle spese di lite segue la soccombenza e, pertanto, YYYYYYYYY
s.p.a. deve essere condannata al pagamento delle stesse liquidate come in dispositivo, con distrazione a favore dei procuratori antistatari.
La sentenza è provvisoriamente esecutiva ex art. 431 c.p.c.
P.Q.M.
il Giudice del Lavoro, definitivamente pronunciando,
rigetta l’opposizione.
Condanna YYYYYYYYY s.p.a. alla rifusione delle spese di lite che liquida in complessivi € 3.000,00 oltre spese generali e accessori come per legge, da distrarsi a favore dell’Avv. ANTONIO Lo Giudice e dell’Avv. MICHELA Lo Giudice.
Sentenza provvisoriamente esecutiva.
Milano, 5 febbraio 2020
IL GIUDICE DEL LAVORO
dott.ssa Chiara COLOSIMO